Il luglio 1969
“Basterebbe che in questi giorni che in qualche manifestazione di piazza si ammazzasse qualche poliziotto e comparisse tra i dimostranti qualche arma da fuoco. La situazione potrebbe precipitare in poche ore. Toccherebbe al governo e al Capo dello Stato dichiarare lo stato d’emergenza. In alcuni Stati federali americani non si è fatto del resto lo stesso proprio in questi ultimi mesi?”. Questa dichiarazione lasciata da un alto funzionario dei ministero degli Interni appare sul settimanale Panorama nel mese di luglio 1969. Pochi giorni prima alcuni giornali stranieri hanno pubblicato la notizia che ufficiali delle forze armate italiane si sono riuniti clandestinamente in diverse sedi “per esaminare la situazione politica”. L’Unità rende noto il testo di un documento approvato in una di queste riunioni che dice tra l’altro: “… si deve pensare all’eventualità che le forze armate debbano entrare in azione per difendere le libertà democratiche e la Costituzione”. Randolfo Pacciardi in un suo editoriale è ancora più esplicito: ” In circostanze così gravi e eccezionali il capo dello Stato ha il potere di “nominare” un governo presidenziale e d’inviare un messaggio alla Nazione la quale, stretta intorno al suo Capo, certamente comprenderà. C’è da prevedere una reazione comunista? Non c’è che affrontarla con fermezza”.
In quelle settimane i fascisti riempiono Roma di scritte e manifesti che esaltano i generali al potere nell’imminenza del colpo di Stato. Il Fronte Nazionale di Junio Valerio Borghese, i Gruppi di Azione Nazionale di Mario Tedeschi, l’Ordine Nuovo di Pino Rauti, la Giovane Italia e altre quindici organizzazioni di estrema destra lanciano l’appello alla mobilitazione. Il Partito comunista è costretto a fare scattare l’operazione di sicurezza e vigilanza nelle sue 4.290 sezioni e 11.170 cellule.
Nel giro di una settimana, tra il 9 e il 15 luglio, la temperatura politica nel Paese raggiunge punte elevatissime. Poi di colpo decresce, ritorna a stabilizzarsi. La stampa italiana, salvo rare eccezioni, rinuncia ad esprimere un giudizio. Solo all’estero se ne parla, pur tra pareri discordi: per alcuni giornali si è trattato di un tentativo rientrato di un colpo di Stato, per altri – la maggioranza – di voci diffuse ad arte per drammatizzare la situazione politica. Su questa seconda interpretazione . concorda l’Espresso che nei due mesi precedenti ha dedicato una serie di articoli alla crisi del centrosinistra. Nel primo di essi, in data 18 maggio, il giornalista Livio Zanetti dava ampio risalto al messaggio di Saragat in cui il centrosinistra veniva definito “irreversibile” e si indicava apertamente la prospettiva delle elezioni anticipate. Circa un mese prima un altro messaggio di Saragat era stato oggetto di una violenta polemica. In risposta a un appello inviatoli dai giovani della Confederazione Studentesca (che raccoglie dai liberali ai neofascisti) , il Presidente della Repubblica aveva condannato “il miracolismo della violenza” e ammonito che “i più ardui problemi si pongono su un piano umano dove tutto può essere risolto”. Mentre quasi tutti i giornali, dal Secolo d’Italia all’Avanti! avevano dato ampio risalto al messaggio, L’Unità aveva parlato dì “sconcertante consenso a un’iniziativa qualunquista”, sottolineando che “l’appello al quale Saragat ha risposto, accusa la classe politica di impartire quotidianamente una lezione dì viltà e praticamente invita il presidente della Repubblica a sostituirsi ad essa”. Secondo il Corriere della Sera invece “è chiaro il richiamo del Presidente contro tutte le forme dì contestazione nazi-maoista, contro l’inquietante collusione degli opposti estremismi”
La scissione socialista e la nascita del PSU
Dopo il 6 luglio, il nome di Giuseppe Saragat ritorna alla ribalta quando alcuni autorevoli giornali stranieri lo indicano, più o meno esplicitamente, come quello dell’ispiratore della scissione del PSI e della conseguente nascita del nuovo partito social-democratico PSU. I socialdemocratici replicano sdegnosamente definendo le rivelazioni “un’illazione offensiva e priva di fondamento” e lo stesso tono usato per contestare un settimanale della sinistra cattolica che in quei giorni afferma che la scissione è stata finanziata coi dollari americani. Ma anche l’Unità è molto esplicita: “Risulta che uno dei “benefattori” del PSU si chiama Vanni B Montana ed è il capo-sezione alle relazioni pubbliche dell’ufficio italoamericano del Lavoro presso il dipartimento di Stato USA. Egli era presente inoltre all’atto costitutivo del PSU”.
Tutti questi fatti sono noti. Meno noto resta quanto è successo dietro le quinte della manovra scissionistica. Il fatto che, per esempio, all’inizio dell’estate vi erano state numerose riunioni alle quali avevano preso parte, oltre a vari esponenti socialdemocratici tra cui il ministro Luigi Preti, il capo dell’ufficio stampa della presidenza alla Repubblica dottor Belluscio e il petroliere-editore Attilio Monti.
Il cavalier Monti (63 anni, figlio di un fabbro di Ravenna, arricchitosi durante la guerra con il traffico del petrolio fatto in società con uno dei segretari dei Partito Nazionale Fascista, Ettore Muti) è oggi proprietario di diverse raffinerie, due delle quali sono tra le più importanti d’Italia: la Mediterranea di Milazzo e la Sarom di Ravenna, cioè le grandi società petroliere americane e anglo-olandesi. La Sarom in particolare ha un accordo con la BP, rinnovato per altri dodici anni nel 1967, per la raffinazione di un fatturato annuo di circa 15 miliardi di petrolio greggio. Uno dei clienti principali dei cavalier Monti è oggi la VI Flotta USA di stanza nel mediterraneo.
Nel mese di giugno 1969, dopo la prima serie di riunioni, Attilio Monti si è recato negli Stati Uniti dove si è incontrato con finanzieri, industriali e rappresentanti della amministrazione Nixon. Nello stesso periodo, a Roma, il deputato socialdemocratico A.C. frequentava spesso un ufficio del SID in via Aureliana e un altro noto personaggio del futuro Partito socialdemocratico unificato era di casa nella sede dell’agenzia finanziaria Merril-Lynch Pierce, in via Bissolati 76, notoriamente legata ad ambienti del Dipartimento di Stato americano. Sempre nelle settimane precedenti la scissione, alcuni dirigenti del PSI, tra i quali un ex ministro, sono stati “sollecitati” ad aderire alla corrente di Ferri e Tanassi dal rappresentante di un’agenzia di stampa specializzata in ricatti a uomini politici. Il direttore, un ex repubblichino divenuto poi collaboratore del giornale del PSDI, La Giustizia, è in ottimi rapporti d’amicizia coi generale Giovanni De Lorenzo, oltre che col redattore capo dei missino Secolo d’Italia, col direttore dello Specchio, Nelson Page, col redattore capo del Borghese Gianna Preda e con due ufficiali del SID, tali Stella e De Bellis. L’agenzia di stampa è finanziata con due milioni al mese versati sotto forma di abbonamento dall’industriale Attilio Monti.
Il 13 luglio, riferendosi “alla recente costituzione del nuovo partito socialdemocratico e alla eventualità di elezioni politiche anticipate, ventimila dei suoi esponenti più rappresentativi, L’Espresso scrive: “Un 18 aprile creato artificialmente, facendo leva sul risentimento diffuso tra gli operatori e la borghesia per gli scioperi, le disfunzioni amministrative, la contestazione studentesca: ecco il progetto che lega la destra DC ai seguaci di Tanassi”. E una settimana dopo in un articolo intitolato “La fabbrica della paura” il giornalista Carlo Gregoretti, fatto un bilancio degli avvenimenti dei mesi precedenti (le violente repressioni poliziesche di cortei e manifestazioni culminate nell’eccidio di Battipaglia, le denunce indiscriminate attuate associando ai nomi dei fermati quelli ricavati a caso dagli elenchi delle questure, la recrudescenza di azioni squadristiche e di attentati fascisti), conclude scrivendo: “Sono soltanto alcuni esempi (…) può apparire come un quadro allarmante di tensione e di panico, dietro il quale non è lecito escludere il disegno di una provocazione interessata: la ricetta per realizzarla è proprio questa”.
Cinque mesi più tardi, il 14 dicembre 1969, nel commentare la situazione politica italiana all’indomani degli attentati di Milano e Roma, il settimanale inglese The Observer scriverà: “I motivi di Saragat nel creare la scissione erano evidentemente sottili. Egli cercava non tanto di influenzare i socialisti quanto di spingere a destra la Democrazia cristiana. Il calcolo era che il governo Rumor fosse costretto alla resa dall’agitazione sul fronte industriale, che le elezioni anticipate venissero tenute nell’anno nuovo e che la paura dei comunismo cancellasse alle urne la sinistra democristiana. Ma tale proposito non si è avverato ( … ) la reazione emotiva, la stanchezza e l’insofferenza del pubblico dettero a De Gaulle la sua vittoria elettorale dopo il Maggio 1968 in Francia. Ma può Saragat sperare di ottenere lo stesso risultato? Per l’intero schieramento di destra, dai. socialisti saragattiani ai neofascisti, l’inaspettata moderazione dell’autunno caldo minacciava di liquidare la paura della rivoluzione sulla quale essi avevano puntato. Quelli che hanno fatto esplodere le bombe in Italia hanno rinverdito questa paura. Dal terrorismo dell’estrema destra, anche la destra “moderata” può trarre vantaggio”.
Nel contesto di questo articolo dell’Observer appare per la prima volta il termine “strategia della tensione” a significare che quanto è avvenuto in Italia in questi mesi, o almeno i fatti più rilevanti, è il risultato di precise scelte politiche, coerentemente organizzate all’interno di un disegno preordinato. Agli inizi del 1968 la situazione economica italiana è caratterizzata, grosso modo, da un contrasto tra le linee di tendenza del capitale monopolistico (le cui accresciute esigenze di competitività internazionale impongono un’espansione dei consumi interni e la soluzione degli squilibri strutturali della società e dello Stato) e le linee di tendenza della media e piccola industria, alla quale l’abolizione delle leggi protezionistiche e l’integrazione nell’area economica europea pongono pressanti problemi di ammodernamento tecnologico, prioritari rispetto all’aumento dei costi del lavoro operaio e delle riforme sociali. Le elezioni politiche del 19 maggio, che ratificano la crisi del centrosinistra e della politica di contenimento delle tensioni di classe, aprono, in prospettiva, uno fase di alleanza obiettiva tra le forze più avanzate del grande capitale e le organizzazioni tradizionali del movimento operaio, mentre a livello parlamentare viene a prefigurarsi la possibilità di un nuovo schieramento tra la linea amendoliana della “nuova maggioranza” e quella del “nuovo patto costituzionale” della sinistra democristiana.
E’ un processo pieno di contraddizioni che incontra, fin dagli inizi, ostacoli e resistenze potenti. Da un lato vi si oppongono i settori più avanzati della classe operaia, contrari all’istituzionalizzazione delle lotte all’interno della dinamica neocapitalistica, e le forze nascenti della contestazione studentesca che, attraverso la denuncia dell’interclassismo e del riformismo, rifiutano sia l’inserimento nei ruoli della classe dirigente borghese sia i tradizionali strumenti della lotta politica; dall’altro lato gli ostacoli maggiori, a livello nazionale, provengono soprattutto dall’ala arretrata del capitalismo, strutturalmente legata al supersfruttamento operaio, dal capitale parassitario e da quelle forze dell’apparato statale (nei ministeri, negli enti pubblici, nelle università, nella magistratura, nella polizia, nell’esercito) contrarie a qualsiasi tipo di riforma, anche soltanto efficientistica, che possa mettere in discussione il tradizionale assetto dei centri di potere burocratico.
Ma il disegno riformistico, con l’esigenza di pur timido neutralismo che esso comporta, urta irrimediabilmente contro le necessità strategico-militari dell’imperialismo americano. Il conflitto mediorientale e la relativa penetrazione dell’Unione Sovietica in un’area che le era tradizionalmente preclusa, il progressivo affrancamento coloniale dei Paesi costieri dell’Africa nord occidentale, costringono gli Stati Uniti a porre un’ipoteca sempre più rigida su un punto chiave del controllo del Mediterraneo qual è l’Italia.
La “strategia della tensione”
La “strategia della tensione”, per potersi realizzare, necessita di un contesto storico, politico e sociale pieno di profonde contraddizioni in cui possa inserirsi un’azione spregiudicata che tenda a spostare il terreno della lotta politica sul terreno dello scontro frontale con le forze dell’ordine, in modo da trasformare il rapporto tra lavoratori e Stato in un problema di ordine pubblico. La crisi storica del centrosinistra, le spaccature che sono state provocate al suo interno dalle lotte dei lavoratori, pongono in evidenza la doppia anima del centrosinistra, l’una riformista, l’altra centrista e conservatrice nella quale trova credito e spazio la componente reazionaria guidata dai socialdemocratici e dalla destra democristiana. Da questo scaturisce una paralisi dell’iniziativa politica, determinata dalla necessità di accantonare i problemi strutturali della società; e proprio qui si innesta il ricatto socialdemocratico che richiede o il completo allineamento a una politica conservatrice oppure la crisi al buio che possa consentire i più ampi margini di manovra alle forze reazionarie annidate nel parlamento, nell’apparato, nella burocrazia, nella classe imprenditoriale.
A tale scopo, mancando le condizioni obiettive che permettano soluzioni di questo tipo, si provoca a freddo un clima interessato di allarmismo con le continue minacce di scioglimento delle camere e di elezioni anticipate, con le ricorrenti minacce di colpo di stato, con l’utilizzazione indiscriminata dello squadrismo fascista, con la provocazione promossa dall’apparato burocratico e poliziesco, tollerante e spesso dichiaratamente connivente con la teppaglia fascista.
Un disegno di questo genere conta sulla possibilità di eccitare l’opinione pubblica contro i pericoli che minacciano le istituzioni democratiche, pericoli rappresentati dagli “opposti estremismi” e dalla impossibilità per le forze di polizia di mantenere l’ordine. Si cerca infatti di perseguire una guerra di logoramento che acuisca la sfiducia dei cittadini e quindi predisponga il terreno per l’accettazione supina di avventure reazionarie o paragolliste.
In questo disegno è indispensabile poter contare in qualunque momento sulla complicità dell’apparato poliziesco e difensivo. Non mancano gli esempi. Il 29 novembre 1968, ad Avola, gli agrari rompono le trattative con i sindacati dei braccianti che chiedono il rinnovo dei contratti di lavoro. La situazione è tesa ma i proprietari terrieri disertano le riunioni convocate a più riprese.
Il prefetto di Siracusa non esita a schierarsi al loro fianco appoggiandone le manovre dilatorie e ponendo al loro servigio la polizia, benché sia stato avvertito dallo stesso sindaco di Avola di non mandare agenti “perché la situazione potrebbe precipitare”. Il 2 dicembre la polizia spara sui braccianti uccidendone due. Ma la complicità nella provocazione non si è espressa solo a livello di prefetto, polizia e magistratura : essa trova l’avallo anche a livello governativo, nell’incredibile discorso dei ministro degli Interni Restivo alla Camera, in cui si pone l’accento soprattutto sulla priorità assoluta del mantenimento dell’ordine pubblico.
In questo modo i problemi politici scompaiono, al loro posto emerge il tema predominante dell'”ordine” in difesa del “disordine”; e, in certa misura, anche i sindacati e le forze della sinistra parlamentare cadono nella trappola proponendosi come obiettivo primario quello del disarmo della polizia. In occasione dei fatti di Avola la stampa cosiddetta moderato svolge puntualmente il suo ruolo di copertura, riversando le colpe di quanto è accaduto su “una minoranza di provocatori che mettono in atto una tattica di guerriglia”. L’inserimento e il ruolo della stampa diventano più espliciti in occasione dei fatti di Battipaglia”.
Il 9 aprile 1969 la polizia spara ancora, in quella città, mentre è in corso lo sciopero generale contro la ventilata chiusura del locale tabacchificio, e uccide un operaio di 19 anni e una giovane maestra che assiste agli scontri dalla finestra del suo appartamento. Giornali come La Stampa della Fiat e Il Giorno dell’IRI parlano di “tumulti”. Ma i giornali fascisti e quelli della catena dell’industriale socialdemocratico Attilio Monti usano termini come “rivolta contro lo Stato”, “organizzazione insurrezionale”, “fine della democrazia”, sostenendo che “il governo è debole” e non ha “il coraggio di difendere le forze dell’ordine e di far rispettare la legge”. Ancora una volta il ministro degli Interni giustifica il comportamento della polizia accennando esplicitamente all’esistenza di un “piano preordinato” messo in atto da “provocatori estranei alla città”.
Sulla natura e l’appartenenza politica di questi “estranei” non si pronuncia, lasciando all’immaginazione della stampa “indipendente” il compito di definirli. E per essa, ovviamente, non può che trattarsi di “cinesi e anarchici che il PCI sfrutta per aprirsi una via verso la partecipazione al potere”. Il ministro Restivo non dice che nei due giorni precedenti la tragedia di Battipaglia il 7 e l’8 aprile, si erano concentrati in città gruppi di fascisti napoletani di Ordine Nuovo e di Università Europea e che da Roma erano arrivati altri squadristi, di Avanguardia Nazionale e ancora di Ordine Nuovo. Eppure si trattava di elementi, una cinquantina in tutto, per buona parte noti agli uffici politici delle questure italiane. La cosa era talmente nota che l’agenzia di stampa O.P., diretta dall’ex pacciardiano Simeoni, il giorno prima degli scontri aveva “captato” lo spostamento dei fascisti e previsto che a Battipaglia vi sarebbero stati “gravissimi tumulti”.
L’interpretazione dei fatti di Battipaglia, che avvengono mentre è già in atto la manovra della scissione socialdemocratica, accentua la frattura all’interno dei Partito socialista unificato. Nel dibattito alla Camera, mentre il socialdemocratico Mauro Ferri dice che “nel Mezzogiorno la protesta popolare è trascesa”, il socialista Lezzi giudica che “le provocazioni possono essere state messe in atto da esponenti dello stesso apparato statale”. Salvo rare eccezioni comunque il significato dei fatti di Battipaglia non viene colto nella sua dimensione strategica, collocato all’interno di un disegno ben preciso. PCI, PSIUP, la sinistra socialista e democristiana, ne colgono soltanto gli aspetti più appariscenti e drammatici per rilanciare il discorso sul disarmo della polizia. Il comunista Gian Carlo Pajetta denuncia in Parlamento un episodio sintomatico, avvenuto nella caserma di polizia di Castro Pretorio a Roma in quegli stessi giorni, in cui il Paese è, scosso da grandi manifestazioni di protesta: “Sapete che fu selezionato un reparto, uomo per uomo, e messo al comando di ufficiali repubblichini, affinché al passaggio degli studenti, anziché gli squilli di tromba e lo sbarramento, e, sia pure, lo scontro, ci fosse invece l’assalto improvviso e poi la caccia all’uomo per dei chilometri e le bastonature selvagge?”.Una denuncia dei genere è limitativa, illumina soltanto un aspetto della manovra portata avanti anche con gli incidenti di Battipaglia. Eppure sarebbe stato sufficiente leggere con maggior attenzione certi giornali, da quelli dell’impero Monti a quelli fascisti. per capire meglio sino in fondo, il significato di quegli incidenti. Il Tempo di Roma, il 17 aprile, scrive che “a Battipaglia è stata sperimentata per la prima volta la tattica che i vietcong usano a Saigon”, che “è prioritario il disarmo immediato dei terroristi” e che “lo Stato Democratico e la natura del PCI sono incompatibili”, e invita la Democrazia cristiana a “non attendere i comodi di nessuno per agire efficacemente in difesa, anche preventiva, dell’ordine pubblico”.
I fatti di Battipaglia vanno invece inquadrati in una situazione che vede l’apparato dello Stato e la polizia svolgere non più soltanto un generico ruolo di appoggio, quasi naturale, alle tendenze conservatrici, ma sviluppare una precisa azione di provocazione, preordinata e finalizzata. E’ quanto si verifica a Roma in occasione della visita del presidente Nixon, con la connivenza aperta tra le forze di Pubblica Sicurezza e i gruppi fascisti, denunciata da diversi giornali della sinistra a Milano con gli attentati del 25 aprile; a Torino con gli scontri del 3 luglio in viale Traiano; a Pisa il 27 ottobre durante gli assalti della polizia contro gli studenti che erano stati provocati dai fascisti greci e italiani. Ma a parte questi esempi clamorosi, una tale complicità è diventata ormai consuetudine in Italia, sia esplicandosi con la tolleranza colpevole verso le azioni squadriste, sia con quegli assalti a freddo di cortei di studenti e lavoratori che durante l’autunno sindacale sono stati usuali.
La connivenza con i fascisti si attenua solo in concomitanza con le vicende della vita politica, quando vi è la necessità di sostituire alle paure provocate dallo squadrismo l’arma più subdola degli “opposti estremisti”, la visione delle guardie rosse e delle guardie nere che assieme danno l’assalto all’ordine e alla tranquillità borghesi.
Per la strategia della tensione quello che conta è di provocare, nell’opinione pubblica moderata, l’immagine del vuoto politico, creare la psicosi della paura, della minaccia permanente, di una incombente disgregazione dello Stato, lenta ma ineluttabile. Nel necessario contesto, di fianco agli attentati. agli scontri, alle provocazioni fasciste e della polizia, si inseriscono anche l’aggiotaggio politico fatto soprattutto dai socialdemocratici con i loro continui ricatti o minacce di scioglimento delle Camere; messa in circolazione di voci su presunti o imminenti colpi di Stato: l’allarmismo economico provocato con artificiali crisi della Borsa. e con il trasferimento di capitali all’estero ampiamente pubblicizzato sulla stampa.
Lo scopo è quello di far pensare che ci si trovi alla vigilia di un nuovo 1922 o di un colpo di Stato alla greca. Ma si tratta di un falso scopo, almeno finora, che tende a sviare l’attenzione da un altro colpo di Stato, strisciante, che si realizza giorno per giorno. Con il ripristino di disposizioni eccezionali, le limitazioni ai gruppi politici e alla stampa di sinistra, il progressivo slittamento verso destra del governo, il tentativo di porre il bavaglio a sindacati, eccetera. E’ un disegno per il momento più di tipo gollista che di tipo greco, anche se non sono scartate soluzioni di ricambio più radicali.
Fra il 1964 e il 1967 – inizi ’68, nella nuova Italia pacificata dal centrosinistra, il neofascismo attraversa una fase squallida, priva – per usare un suo termine – di “virilità”. Il MSI dei ragionier Arturo Michelini amministrava la routine elettorale di un gruppo di comparse screditate, qualche raduno di nostalgici, le solite scritte sui muri, qualche attentato (una cinquantina in tre anni: roba da ridere rispetto a oggi).
La sua funzione più importante, tutto sommato, era assolta dai gruppi dissidenti dell’estrema destra nell’ambiente studentesco romano. Restavano ai fascisti le complicità politiche con l’apparato ma esse erano più dettate dalle affinità culturali e ideologiche del singolo burocrate, poliziotto o magistrato, che non dalle esigenze tattiche e strategiche con le quali lo Stato borghese ha, da sempre, legittimato la loro presenza e il loro ruolo. E mancando questi presupposti oggettivi, ai fascisti mancavano anche i soldi. In quegli anni molte sezioni missine chiudono, Il Secolo d’Italia licenzia redattori e riduce la tiratura, due appartamenti del palazzo di via Quattro Fontane, sede nazionale del MSI, vengono affittati a uffici privati. Poi, improvvisamente, nei primi mesi del 1968 le cose cambiano, comincia la “pacchia” che dura ancora oggi.
Il MSI riapre e aumenta le sezioni, le città italiane vengono invase da migliaia di volantini inneggianti alla “piazza di destra” e di manifesti di giovanotti in camicia verde che puntano il dito ammonitore. Davanti alle scuole si diffondono gratuitamente pacchi del Diario Italiano dove tra fiamme tricolori e fasci littori, si inneggia a due sinceri anticomunisti: Benito Mussolini e James Bond. Nelle edicole compare un numero sterminato di giornali e riviste (alcuni vecchi, molti nuovi): L’Assalto, L’orologio, Forza Uomo, Nuova Repubblica, Il Cavour, L’Asso di Bastoni, Rivolta Ideale, Per l’Onore d’Italia, Confine Orientale, Diseguaglianza, Est Press, Folgore, Gioventù Nazionale, Il Dardo, Il Nuovo Pensiero Militare, li Conciliatore, Iniziativa Nazionale e Europea, Il Combattente della Libertà, L’Alleanza Italiana, L’Arena di Pola, La Vetta d’Italia, L’Esule, L’Ultima Crociata, Mondo Romano, Notizie Latine, Monterosa, Combattentismo Attivo, Prima Linea, Uomini Nuovi, Volontà, La Legione, Europa Civiltà, Forze Nuove L’Aspra Lotta, L’Italiano, Noi Europa, Il Ghibellino, L’Universale, Il Legionario, F.N.C.R.S.I., Perseverare, Conquista dello Stato, Gioventù Nazionale, Creatività, Il Terzo Grado, In Piedi!, Il Precursore, Ordine Domani, Documento del Nostro Tempo, Documenti sul Comunismo, Partecipazione, La Fiamma Nazionale, La Tappa, Eur X Opa, Corrispondenza Europea, Europa Tempo, Eurafrica, eccetera, oltre naturalmente, ai tradizionali “Il Secolo d’Italia“, il “Borghese” e “Lo Specchio“.
Allo stesso modo proliferano i nuovi gruppi dell’estrema destra, ognuno con sede propria, bollettino, attrezzature per la propaganda. Eccone alcuni: Partito Nazionale Democratico, Università Europea, Movimento Tradizionalista Romano, Costituente Nazionale Rivoluzionaria, Gruppi Nazionali Popolari, Giovane Europa, Fronte Nazionale Europeo, Fronte d’Azione Liberale, Movimento Nazional Proletario, Gruppi Spontanei Anticomunisti, Movimento Combattentistico Attivo, Ordine di Domani, Cavalieri della Nazione, Nuclei di Difesa dello Stato, Comitato Difesa Pubblica, Nuova Caravella, Volontari Civili, Fronte Unito Anticomunista, Comitati di Salute Pubblica, Comitati di Difesa Civica, Ordine e Progresso, Patrioti Apuani, Elmetti Neri, Democrazia Maggioritaria, Camicie Verdi, Formazioni Giovanili, Aquile Nere, Centro Europa Unito, Gioventù Nazionale Rivoluzionaria, Guardie Bianche, Fronte Nazionale Bulgaro, Cattolici con grinta, Italia Irredenta, Gruppi Dannunziani, Raggruppamento Italico, Seconda Repubblica, Avanguardia Nazionale.
Contemporaneamente si rafforzano e si riorganizzano i gruppi già esistenti che sono: le associazioni di arditi e ex combattenti, le federazioni degli ex repubblichini, i Volontari del MSI, l’ASAN, la Giovane Italia, il FUAN-Caravella, l’Unione Nuova Repubblica di Junio Valerio Borghese, l’Ordine Nuovo dei giornalista del Tempo Pino Rauti, l’Europa Civiltà di Loris Facchinetti, i GAN (Gruppi di Azione Nazionale) dell’ex repubblichino direttore del Borghese Mario Tedeschi, l’OAP (Organizzazione Azione Patriottica), il MAR (Movimento di Azione Rivoluzionaria) e l’Italia Unita che ha tra i suoi fondatori il generale del genio navale Giuseppe Biagi e il presidente del tribunale di Monza Giuseppe Sabalich.
E’ un giro di miliardi. Chi paga i fascisti?
Chi li paga
La centrale dei finanziamenti USA al neofascismo italiano è la Continental Illinois Bank di Cicero, Illinois, che concentra enormi capitali provenienti in massima parte dall’industria bellica americana. La Continental (come anche la Gulf and Western) che amministra il capitale della mafia americana Cosa Nostra) fornisce la copertura finanziaria alla italiana Banca Privata Finanziaria, della quale si serve Michele Sindona (11) per la gigantesca operazione di trasferimento di medie industrie italiane sotto il controllo dei capitale americano, che è iniziata verso il 1968. La Continental, inoltre, è una delle maggiori consociate dell’industriale Carlo Pesenti e dell’Istituto per le Opere di Religione, la centrale della finanza vaticana il cui nuovo responsabile è monsignor Paul Marcinkus, originario di Cicero.
Presidente della Confinental Illinois Bank è David Kennedy, consigliere al Tesoro dell’amministrazione Nixon. Tramite l’italo-americano Philip Guarino, nostalgico per la parte italiana e repubblicano e grande elettore di Richard Nixon per l’altra metà americana, David Kennedy è entrato in contatto con l’onorevole Luigi Turchi. il deputato del MSI ha partecipato alla campagna elettorale di Nixon facendo capo al quartier generale del partito repubblicano a Washington da dove ha organizzato comizi, dibattiti e conferenze radiofoniche per la comunità italiana negli Stati Uniti. Durante un ricevimento, in cui Turchi era tra gli ospiti d’onore, il capo dell’esecutivo della campagna elettorale, Michael III, nipote di Eisenhower, ha espresso ai giornalisti presenti l’apprezzamento di Nixon per il. contributo offertogli dal parlamentare italiano e “la fiducia che il contatto si protragga anche nel futuro” (comunicato ANSA). Tornato in Italia Luigi Turchi ha pubblicato a piena pagina sul suo giornale La Piazza una foto del nuovo presidente americano con dedica personale.
Altri soldi americani arrivano ai fascisti italiani dalla CIA che si serve per questo del “canale greco”. Il primo ministro Papadopulos ha affidato la gestione di quei fondi al capo del KYP, colonnello Michele Rufogalis, (agente – come il ministro dei Coordinamento Makarèzos – dei servizi segreti americani da almeno otto anni), il quale a sua volta ne cura la distribuzione sulla base delle indicazioni fornitegli dall’incaricato della “questione italiana”, l’agente del KYP Costantino Plevris.
La fonte dei finanziamenti in Europa è la Banque de Paris et des Pays Bas, la stessa usata dai monopoli agricoli e minerari belgi, francesi e olandesi per le colossali operazioni di finanziamento dell’OAS in Algeria e delle truppe mercenarie in Congo. Nel novembre ’68 Michele Sindona ha condotto per conto della Banque de Paris et des Pays Bas la scalata alla società Finanziaria Sviluppo fino a allora controllata dal gruppo italiano Cini-Gaggia-Volpi. La Sviluppo doveva servire alle grandi società petrolifere americane e anglo-olandesi per combattere all’interno della Montedison la battaglia contro la linea IRI-ENI-Agnelli-Pirelli che, col processo di razionalizzazione che comportava, avrebbe aumentato la competitività della Montedison a livello internazionale.
Restano poi finanziamenti nazionali. Il quadro è estremamente composito e riflette le contraddizioni e gli squilibri del processo di restaurazione neocapitalistica in atto in Italia. A Genova pagano armatori e petrolieri, a Rimini grossi albergatori, a Ravenna gli industriali zuccherieri, a Roma Napoli Palermo gli impresari edili, a Bari e Reggio Calabria gli agrari, eccetera. In sostanza a foraggiare i fascisti sono i settori della media e piccola industria e quelli dei capitale parassitario. La Confindustria in quanto tale, poiché al suo interno esistono contrasti di tendenza tra “presidenzialisti” e “riformisti”, ha preferito continuare a investire i propri soldi nei partiti di governo e dell’opposizione” costituzionale di destra, oltre che nel SID al quale versa ogni anno dai 70 agli 80 miliardi (cfr. Alain Guérin, Qùest-ce que la CIA? Editions Sociales, Paris 1968).
I rapporti dei fascisti con il Vaticano invece si sono fatti più cauti e discreti che nel passato. Uno dei tramiti più noti è il principe Filippo Orsini, ex assistente al soglio pontificio, molto legato a Junio Valerio Borghese e a Giulio Caradonna. Tra le varie entrature, Filippo Orsini ha quella molto consistente con il cardinale Samorè, ex presidente della pontificia commissione latino-americana, che è uno dei fiduciari della Misereor, una ricchissima società finanziaria tedesca che sostiene le iniziative anticomuniste in tutta Europa.
Tra le fonti dei finanziamenti minori c’è l’Associazione per l’Amicizia Italo-Tedesca con sede a Roma (via del Colosseo, 2 a), il cui direttore, Gino Ragno, è stato presidente della Giovane Italia, membro di Ordine Nuovo e fondatore del gruppo clandestino dei Figli del Sole. Ragno, che è anche collaboratore del, quotidiano Il Tempo, ha contatti con industriali, militari (soprattutto ufficiali dei paracadutisti), e uomini politici della Germania Federale.
A conti fatti il neofascismo italiano ha svolto bene il suo ruolo negli anni ’68 – ’69, e chi lo ha finanziato può ritenersi soddisfatto della scelta e della spesa. Soltanto il tentativo, operato con le infiltrazioni, di estremizzare e deviare “dall’interno” le lotte dei gruppi della sinistra extraparlamentare e del Movimento Studentesco è sostanzialmente fallito.
Merlino – che pure è uno degli esempi più riusciti – fa testo in proposito. In compenso si sono rivelate più efficaci le provocazioni operate “dall’esterno”, sia esercitando il vandalismo inutile e sistematico ai margini delle manifestazioni – soprattutto di quelle che sfociavano in scontri con la polizia – sia praticando i tradizionali metodi squadristici, allo scopo di spostare all’indietro gli obiettivi di lotta della sinistra e di provocare quelle reazioni che giustificassero uno degli argomenti-principe dei cantori della “strategia della tensione”, quello degli “opposti estremismi”. In soli 2 mesi, nell’ottobre e novembre 1969, hanno compiuto in varie città italiane 52 tra aggressioni e “spedizioni punitive” (16 contro licei, 5 contro sezioni dei PCI, 4 contro sedi universitarie, 7 contro manifestazioni e cortei, 20 contro militanti di sinistra isolati).
Negli ultimi due anni, inoltre, si, sono addestrati coscienziosamente, con ampia disponibilità di mezzi e di attrezzature. Hanno palestre in quasi tutte le città italiane (sette soltanto a Roma) dove praticano in prevalenza il “karatè” e l'”akidò”, la lotta giapponese con il bastone. Frequentano assiduamente i corsi di lancio organizzati nelle varie sedi dalla Associazione Nazionale Paracadutisti; allestiscono campeggi paramilitari un po' dovunque, addestrandosi alla controguerriglia sotto la guida di ex ufficiali repubblichini, quando non si tratti di quelli dell’esercito italiano che prestano servizio alla scuola d’arditismo di Cesano. Compiono periodiche esercitazioni di tiro in poligoni militari, come quelli di Palermo o di Tor di Quinto a Roma, oppure “clandestini”, come quelli di Cornuda, di Cervarezza, dell’Alta Sabina, di Tolfa, dei Colli Euganei, della Sila, ecc.
Costituirebbero insomma, nell’ipotesi estrema di un colpo di Stato alla greca nel nostro paese, una sia pur modesta forza fiancheggiatrice. Ma l’attività nella quale eccellono sono gli attentati. Nei due mesi-campione, l’ottobre e il novembre 1969, hanno lanciato 27 bottiglie molotov (contro 11 sezioni del PCI, 4 del PSIUP, 2 del PSI, 3 Case del Popolo, 2 sedi marxiste-leniniste, due del M.S., 1 della FIOM-CGIL, 1 chiesa valdese e 1 sinagoga); 13 ordigni al tritolo (contro 2 sezioni dei PCI, 5 lapidi. partigiane, 3 caserme, 2 chiese, 1 cabina dell’ENEL); 10 bombe-carta (contro 6 sezioni del PCI, 2 circoli operai, 1 sede della RAI, 1 ospedale militare); 2 bombe a mano di tipo SRCM in dotazione all’esercito (contro due case del popolo).
Fondamentale, in questo quadro, è la parte giocata dagli attentati con falsa firma di sinistra: sul totale dei 145 del 1969 escludendo quelli compiuti da militanti di sinistra e – essi sono in tutto una cinquantina. La serie più vicina inizia nell’Ottobre del ’68 con i due attentati di Avanguardia Nazionale agli automezzi della polizia parcheggiati davanti alla Scuola Allievi Sottufficiali di via Guido Reni a Roma; e si conclude – almeno ufficialmente – con quello di Reggio Calabria.
La notte fra il 7 e l’8 dicembre 1969 esplode un ordigno ad alto potenziale che devasta l’atrio della Questura di Reggio Calabria e ferisce gravemente l’appuntato di guardia. Contro i responsabili, identificati e arrestati a Roma due settimane più tardi, viene elevata l’imputazione di detenzione di esplosivi, lesioni aggravate e concorso in strage. Sono due studenti universitari: Aldo Pardo e Giuseppe Schirinzi. Nel loro curriculum giudiziario appare una serie incredibile di denunce – apologia di fascismo, danneggiamenti, rissa aggravata, lesioni personali, etc. – ma neppure una condanna. Il loro curriculum politico, alla luce dei tragici avvenimenti di quei giorni, è estremamente significativo- ex dirigenti nazionali della missina Giovane Italia, negli ultimi due anni hanno militato
nei ranghi dell’Avanguardia Nazionale di Stefano delle Chiaie, del Fronte Nazionale di Junio Valerio Borghese e dell’Ordine Nuovo. Giuseppe Schirinzi è componente dell’esecutivo del “Centro studi
di Ordine Nuovo”, una trovata di Pino Rauti per fornire una copertura “culturale” all’organizzazione di cui è presidente; Aldo Pardo è uno dei responsabili della sezione giovanile calabrese del
Fronte Nazionale. Ma c’è di più: nella primavera del ’68 i due hanno partecipato al famoso viaggio-premio in Grecia e, assieme a Mario Merlino, sono tra i fascisti “superselezionati” che s’incontrarono con Costantino Plevris nella sede ateniese del Movimento “4 Agosto”.
Quello alla Questura di Reggio, ultimo in ordine di tempo, di una lunga serie di attentati dinamitardi che hanno seminato il panico nel capoluogo calabrese alla fine del ’69 ha un significato esemplare.
Attribuito dalla stampa padronale (con i soliti quotidiani della catena Monti, Il Tempo di Roma e La Notte di Pesenti in prima fila) agli anarchici e ai maoisti, avviene alla vigilia di un evento d’eccezione: il comizio che Junio Valerio Borghese, ospite di un albergo di Reggio dal 6 dicembre, dovrà tenere il giorno successivo in città. In una città presumibilmente sconvolta e indignata per il “gesto criminale dei dinamitardi di sinistra contro uno dei templi dei potere costituito”.
Alle ore 17 del 12 dicembre 1969, la autoambulanze che si dirigono a sirene spiegate alla Banca Nazionale del Lavoro per raccogliere i feriti della prima bomba romana, sfrecciano tra mura ricoperte da migliaia di giganteschi manifesti tricolori. Sopra vi si legge: “Domenica 14 dicembre – Manifestazione nazionale del MSI al Palazzo dei Congressi dell’EUR. Parlerà Giorgio Almirante. Italiani accorrete! Reagite al caos e al disordine dilagante! La piazza di destra vi attende!”
La manifestazione, il giorno successivo alla strage, verrà vietata in extremis dal Ministro degli Interni. Ancora una volta i fascisti italiani naufragano nel loro delirante velleitarismo. Dopo 50 anni non hanno ancora capito che se nel ’22 lo Stato monarchico e conservatore non avesse deciso di identificarsi nel regime, Mussolini avrebbe fatto la marcia su Roma, anziché in vagone letto, in un cellulare; e che, se l’illusione riformista del movimento operaio non avesse riconsegnato l’Italia della Resistenza alla restaurazione capitalistica, il MSI ed i suoi sottopancia non avrebbero reperito né i mezzi né le complicità politiche per sopravvivere. Con la strage di Piazza Fontana i fascisti ritentano un’impossibile ingresso nella storia e finiscono, come al solito, nella cronaca (nera) delle grandi scelte del capitale e dell’imperialismo stranieri: impotenti e subalterni, in una impresa criminale che li vedrà esclusi dalla spartizione del bottino.
A Roma dalle ore 15 circa del 12 dicembre 1969, un noto professionista iscritto ad un partito di sinistra riceve un avvertimento telefonico: “Ti consiglio di sparire dalla circolazione. Tra poco in Italia, per voi, l’aria sarà irrespirabile”.
La voce è quella di P.M., figlio ventiduenne di un ex pezzo grosso del SIFAR, attualmente in pensione, ma con incarichi “riservati” in ambienti ad altissimo livello. Un’ora e mezza più tardi esplodeva l’ordigno della Banca Nazionale dell’Agricoltura, uccidendo sul colpo 12 persone e dilaniandone un centinaio. Il giorno successivo, sabato 13 dicembre, il presidente del consiglio, on. Mariano Rumor dichiarava ai giornalisti andati ad accoglierlo all’aeroporto di Fiumicino al suo ritorno da Milano che la “ricostituzione del centro-sinistra organico è urgente e indifferibile”.
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