Nei giorni delle bombe di Milano, e dei minacciosi bollettini presidenziali, erano in molti a pensare che i padroni tutti quanti, abbandonata ormai la speranza di chiudere la partita cogli operai ormai con la firma del contratto, stessero per decidersi a tentare la via dello scontro aperto e a tirare fuori dal loro arsenale le armi che tengono in serbo per i momenti «decisivi». Le perquisizioni e i sequestri, le migliaia di denunce, gli arresti e i processi, la briglia sciolta alle squadre fasciste hanno contribuito ad alimentare il clima di caccia alle streghe.
Qualche aspirante boia si è subito candidato, qualche procuratore generale ha creduto giunto il momento per lanciare appelli alla salute pubblica, e programmi di repressione indiscriminata. A poche settimane di distanza l’atmosfera si è decisamente distesa. I portavoce dei grandi padroni ostentano un ragionevole ottimismo, le minacce di rotture clamorose tra i rappresentanti della borghesia sono sfumate o si sono ridotte a piccole beghe di potere. Attorno al mercato della formazione del nuovo governo si è ricomposta la grande famiglia dei politicanti borghesi.
La campagna repressiva lanciata dalle destre ha ceduto il posto alla campagna antirepressiva amministrata dalle sinistre, PCI e sindacati in testa, e anche dai gruppi e gruppetti minoritari disorientati prima dalle lotte e poi dalla repressione. Ai fascisti si sta rimettendo la museruola, alle masse si promettono amnistie e indulti, al presidente si offre l’occasione di mostrarsi benevolo e grazioso con i sudditi.
Cos’è cambiato?
Sul fronte della lotta di classe quasi niente. Quello che non si è ottenuto con la firma del contratto non lo si è ottenuto nemmeno con la dinamite: dentro le fabbriche gli operai restano all’offensiva, la normalità non è tornata. La produzione è ancora ingorgata, l’ordine, la disciplina, l’autorità non sono stati restaurati. Le lotte riprendono un po’ dappertutto, cariche di tutti i contenuti generali dell’autunno. Nella società tutti gli ostacoli che i grandi capitalisti non sono riusciti a spianare nel passato, l’arretratezza, la miseria, la disoccupazione si ripresentano oggi ingigantiti come altrettante minacce rivolte contro il sistema.
In questo contesto la grinta biliosa di procuratori generali e di pubblici ministeri non poteva avere più effetto di una bolla di sapone.
Rivelare sul serio la violenza repressiva dello stato contro la lotta proletaria può essere molto pericoloso per i padroni, specialmente per quei pochi che hanno in mano tutte le leve decisive dell’economia.
La grande industria pubblica e privata ha bisogno oggi più che mai di produrre, espandersi, di «progredire» dal punto di vista tecnico e organizzativo, sulla pelle degli operai: per questo è indispensabile la pace sociale.
Ma ricorrere al braccio dello stato per imporre la pace sociale vuol dire per i padroni più «avanzati» rischiare di imboccare una via senza uscita.
Per questo si muovono con prudenza cercando di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Ciò che più preme ai Pirelli, ai Luraghi, agli Agnelli non è trascinare qualche operaio in tribunale, ma piuttosto di portare il tribunale dentro la fabbrica, ripristinare prima di tutto la legge della produzione. È in fabbrica che la repressione cercherà di mordere: «Abbiamo avuto dei dissapori nei mesi scorsi, niente di grave se insieme decidiamo di metterci d’accordo, quel che è stato è stato, eccovi l’amnistia. Non parliamone più e soprattutto non perdiamo altro tempo. Il lavoro ci aspetta».
Così il «disegno repressivo» partito fragorosamente dalle bombe ha rivelato nello spazio di un mese la sua reale portata; una velleità per la destra, un espediente più che una manovra per i riformisti borghesi, un’occasione da sfruttare per acquistare prestigio di fronte alle masse per gli opportunisti del PCI e dei sindacati. A ciascuno il suo.
Nel mercato delle vacche per rifare il governo i ruoli sono stati rispettati fino in fondo.
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