Le emozioni, le passioni e le paure raccontate nei diari dipingono un eccezionale quadro del periodo, a partire da chi ha vissuto personalmente un passaggio che ha profondamente trasformato la società.
Una rivoluzione culturale tra immaginazione al potere e “felicità pubblica”
L'uso politico del 68 comincia il suo itinerario retorico di esorcizzazione del male attorno ai topoi dell'estremismo e della violenza, ogni tanto qualche buon libro di memorie e qualche nuovo studio ma tendono a passare sotto
silenzio, come se fosse finita una moda. Nonostante tutto il fatto che si sia arrivato al quarantennale è dunque una occasione particolare. Perché la distanza storica consente forse meglio di
cogliere i tratti più generali e di non identificarli col ramo secco del terrorismo ma con un contesto epocale che oggi la globalizzazione in corso illumina e chiarisce a sua volta, Il 68 fenomeno globale e non storia di rivoluzioni
mancate, le rivoluzioni fallite del resto furono poche, quella del maggio francese fu forse l'unica, storia di una non- insurrezione che sembrava
invece precipitare da un momento all'altro perché la sua trama riassumeva
come in un film già visto altre rivoluzioni del secolo.
Ciò che dunque accomuna i vari 68 su scala intercontinentale è semmai la nascita di un soggetto nuovo della politica, il movimento, che era ed è cosa diversa dai tradizionali movimenti di massa, fiancheggiatori e compagni di strada dei
partiti storici della sinistra, sul modello dei "Fronti popolari".
Portatore di una
rivoluzione non-politica (di presa del potere) e di una rivoluzione non-sociale (di rovesciamento del modo di produzione), una rivoluzione dunque "culturale" in senso ampio, antropologico. Credo che la definizione migliore che ne condensa i termini sia quella formulata allora dalla Anna Arendt, la nascita di una felicità pubblica, perché essa riassume bene la fusione etico -
antropologica fra politica e vita individuando nello spazio pubblico il luogo dell'irruzione. E credo che se proprio si vuole anche ricorrere a un qualche
slogan di allora che condensi a sua volta la spiegazione d'insieme, esso non sia solo la famosa parola d'ordine dell'immaginazione al potere (che pure
indica un varco peculiare, un punto di svolta) ma quella per cui il personale è politico.
Essa infatti rivela una ambivalenza profonda che va riconosciuta
segnalando al tempo stesso la fine della politica tradizionale (il suo spostarsi
altrove) ed un nuovo eccesso di politicizzazione (una logica per cui “tutto” è
politica e solo la politica smaschera il mondo). Nel primo significato dello
slogan si consuma un rovesciamento, la politica non è la dimensione della
lotta per il potere o meglio essa si estende ai ruoli e ai corpi, è riproduzione
di micropoteri . Nel secondo significato si torna invece a una forma di universalizzazione dei saperi tramite il politico stesso. Se il lato positivo
sembrò essere l'aver investito non più lo Stato e il Parlamento ma il "privato", non più la produzione sociale ma la "riproduzione" della società attraverso la
riproduzione dei ruoli, dei meccanismi autoritari di potere, del modello
patriarcale di famiglia ecc, la scoperta insomma che si può e si deve "partire
da sé", porre il soggetto al centro della società stessa, il lato negativo e paradossale fu a sua volta una sorta di iperpoliticizzazione della vita,
strappata alla sua quotidianità e messa a nudo come rapporto di potere.
Tutto
è politica, dunque. Comincia da qui una sorta di ambivalenza, la sessualità, la famiglia, il corpo, i sentimenti, sono rivelatori di meccanismi di dominio, ma
questa nuova politicizzazione della vita rischia in permanenza una caduta
nell'ideologia. In realtà quando questo campo di analisi delle politiche della soggettività si traduce in una rivendicazione di nuovi diritti (come avvenne per il referendum sul divorzio e per la questione dell'aborto) la politicità della vita
diviene analisi concreta di bisogni e diseguaglianze, ricerca del soggetto
debole e privo di suoi diritti. Ma poco per volta appare chiaro che si tratta di
nuovi settori da aggiungere alla politica tradizionale: la salute dei corpi, la
malattia, il diritto alla vita; non più o non tanto una rivoluzione culturale, ma
una estensione delle politiche del welfare. Mentre i nuovi studiosi arrivano a
spiegare che stiamo per entrare in un campo particolare che investe appunto
il dominio e la sua estensione. Con la definizione di biopolitica siamo dentro
il nuovo orizzonte. Il dominio adesso plasma i corpi nel loro nascere e
riprodursi, nelle regole della ricerca del piacere, nell'investire non più o non
tanto il cittadino ma l'insieme dei corpi all'interno di una disciplina
interiorizzata. La politica è dunque il controllo disciplinare della stessa nuda
vita. Quello che agli inizi degli anni ottanta appariva ancora come una forma
di politicizzazione in più, traducibile in rivendicazione di diritti, rivela un orizzonte destinato a cambiare la dimensione stessa della politica. Il "ritorno
del privato" diviene a sua volta processo globale di politicizzazione. Accanto
e fuori alla politica classica e a quella tradizionale, con i suoi dualismi
stato-società civile, riforma-rivoluzione, progetto generale e istanza
particolare, strategia e tattica, si compie uno spostamento che è insieme
ideologico e linguistico, dai massimi sistemi alle forme molecolari della vita, dalla riforma concreta per via legislativa alle pratiche individuali e di gruppo.
Anche lo slogan dell'immaginazione al potere presenta una sua
ambivalenza.La sua interpretazione più nota è quella che ne sottolinea la
caratteristica del rilancio dell'utopia e e del „ vogliamo tutto" come
espressione ingenua e liberatrice. Ma non se ne capirebbe la portata di fondo
se non si cogliesse invece nel richiamo all'esplodere dell'immaginario una
dimensione di riepilogo novecentesco delle avanguardie artistiche e insieme
un nuovo spazio possibile della comunicazione, il rapporto con una modalità creativa della comunicazione resa possibile da cinema, tv e mass media,
che troverà venti anni dopo con la diffusione della rete Internet il suo
percorso di uso insieme soggettivo e di massa.
Si obietterà che in questo modo si fa del 68 non più una stagione di nuove lotte, di rivolta giovanile, di irruzione dei movimenti come nuovi soggetti con
tutto il suo bagaglio di estremismi e utopie ma una svolta e una corrente
culturale di cui riconoscere la consistenza negli effetti posteriori, che però
non sono di quella stagione ma i loro derivati, solo una conseguenza ulteriore. La
legittimazione dell'obiezione non impedisce tuttavia di cogliere il
punto di svolta, la nascita di una cultura del soggetto e di una dichiarazione
di una serie di luoghi del “post” che si rivelano a partire da quella
stagione: post-industriale, post moderno, post comunismo, ovvero una
dichiarazione di crisi dei modelli e dei saperi novecenteschi e l'aprirsi di una
transizione, lo spazio del post designa infatti solo lo stato di crisi e non una cultura organica, il passaggio a
qualcosa di altro ma non la sua affermazione consolidata. In questo senso la
cultura del 68 esprime l'indicazione di una rottura che permane.
Il '68 come paradigma della " nuova sinistra"
Quale cultura politica? C'è poi rispetto alla storia politica nazionale e alla stessa storia della sinistra un altro
aspetto che rimane peculiare e di cui è impossibile tacere. Con l'esplosione
del nuovo movimento sorgono nuove organizzazioni politiche che si
richiamano a esso. E sebbene possa essere lecito distinguere la stagione del
movimento e quella delle nuove organizzazioni politiche, non è possibile
operare una separazione fra questi due aspetti.
In primo luogo, si pensi
appunto al caso italiano, perché le nuove organizzazioni sorgono nel corso dello stesso 68 o subito dopo, a distanza di pochi mesi dalla primavera e
dagli avvenimenti del Maggio francese.In secondo luogo perché se si può
individuare nella formazione di specifici" gruppi dirigenti" della nuova sinistra
un vero e proprio ceto politico in via di costituzione, esso tende ad
autodefinirsi come espressione delle "avanguardie di movimento" e a
condividere con esso lotte, speranze, comportamenti, stili di vita, mentalità.
Qui però rimane decisivo distinguere in termini generazionali la vera e
propria generazione del 68 (ovvero coloro che iniziano il loro percorso identitario nella stagione del movimento, coloro che hanno più o meno dai 15
ai 25 anni) da quella che possiamo chiamare invece la generazione degli
anni sessanta (ovvero coloro che hanno tra quindici e venti anni agli inizi
degli anni sessanta e compiono le loro prime esperienze politiche prima del
68, nelle lotte del luglio 60 o nella rivolta torinese di piazza Statuto nel 1962 o in altre esperienze simili).
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