Pablo Echaurren - La casa del desiderio

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Indiani delle metropoli, il '77 dimenticato, di Monia Cappuccini

 

«Mi chiamo Gandalf il Viola. Parlerò a titolo strettamente personale. Perciò parlo a nome degli Elfi del bosco di Fangorn, dei Nuclei Colorati Risate Rosse, del Mpfa (Movimento politico fantomatico assente), delle Cellule Dadaedoniste, di Godere Operaio e Godimento Studentesco, dell'Internazionale Schizofrenica, dei Nsc (Nuclei sconvolti clandestini), della Tribù di Cicorio, dei Cimbles e di tutti gli indiani metropolitani». Si presentò con queste parole, e con un cilindro in testa e il volto dipinto di bianco, l'indiano metropolitano Olivier Turquet, invi(t)ato ad una conferenza stampa a Roma. Correva l'anno 1977, l'era del "tutto il potere all'immaginazione" che corroborava intrusioni nell'informazione ufficiale di questo genere. Seduto accanto a Gandalf l'allora segretario della Fgci Massimo D'Alema, serio e un po' interdetto da quella stramba presentazione - incipit per un affondo nei confronti del Pci.
L'episodio ha fatto storia e la storia ha reso merito al ‘77, in fondo anche grazie alla complicità performativa di Gandalf. Del come e del perché parla, indirettamente, Pablo Echaurren nel suo libro-diario La casa del desiderio (Manni Editore, pp. 119, euro 10,00), narrazione ironica sull'anima più irriverente del Settantasette romano: gli indiani metropolitani. Passaggio breve e colorato, il loro, quasi un'apparizione, ricondotta da Pablo Echaurren in una sorta di fenomenologia di movimento. Scevra di eroismo, disfattismo, mitizzazione o senso nostalgico. Del tutto spiazzante e immortale, come l'energia adrenalinica dei fratelli Ramones.
Pittore, artista e istrione del nostro tempo, Pablo Echaurren fu tra i protagonisti di quella straordinaria annata di contestazione, ideando insieme a Maurizio Gabbianelli, Olivier Turquet, Massimo Terracini e Carlo Infante alcune testate autoprodotte, quali Abat/jour e Wam, e il più noto e curioso foglio-affiche Oask?! , collage di testi collettivi in cui la scrittura veniva pluri-direzionata per disgregare segni e messaggi. Indisciplinata e imprevedibile, come la loro critica nei confronti della vecchia politica e delle forme tradizionali della rappresentanza, portata avanti a colpi di comunicazione viva, fatta di ironia, giochi di parole, détournement e slogan invertiti fino al paradosso.
Chi erano questi Apache, Cheyenne, Sioux e Mohicani che dissotterrarono l'ascia per affacciarsi sul piede di guerra nella contestazione? Giovani disoccupati cresciuti a latte e rifiuto del lavoro, che dall'università migrarono verso il centro storico romano, tirandosi fuori dalle piazze arroventate da uno scontro militare insostenibile. Senza dimenticare i precetti dadaisti ripetuti a mantra: l'arte è vita e la vita è arte. E che senza deroghe condussero la tribù di Roma a misurarsi in prima persona con il bi/sogno di vivere collettivamente nuovi rapporti umani. Nel desiderio di tradurre la politica nella riappropriazione dell'esistenza, la casa in via dell'Orso 88 si prestò così a metafora della vita.
A due passi da Piazza Navona, alla palazzina di tre piani con attico e due terrazze collegate da una scala a chiocciola, vi si arrivava seguendo strade e piazze barocche. Un flusso di soggetti desideranti diede lì vita alla prima occupazione giovanile. Di cosa vi accadeva Echaurren racconta senza nulla scontare alle delusioni e disillusioni sulle difficoltà di convivenza. Laboratorio di creatività oltre che di vita, il quadro delle memorie è sostenuto da un vasto repertorio di materiale fotografico e grafico d'epoca, come gli scatti di Tano D'Amico e manifesti, biglietti, messaggi e disegni accidentalmente, e fortunosamente, scampati al sequestro durante lo sgombero di via dell'Orso. Il '77 non è stato poi così devastante. A guardarlo dalla casa del desiderio è stato "l'anno del girotondo più che del piombo". Del conflitto e dello scontro violento certo, non privo di contraddizioni interne. Nell'articolata geografia di collettivi e gruppi, proprio la collocazione degli indiani ne costituì anzi un'incongruenza. Quando si trattò di passare davvero all'azione un dubbio trascendentale li colse: «Ma l'88 nel '77 quante volte ci sta?».

 

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